martedì 18 settembre 2012

VIAGGIO IN IRLANDA

Veduta del faro dalle scogliere di Howth

Partire da soli, soprattutto per la prima volta, non è mai semplice. La testa si riempie di domande, di dubbi esistenziali, di calcoli razionali che ti spingono a fermarti e a ripensarci continuamente. E’ pericoloso? Può annoiare? Come si passano le giornate?
Poi d’un tratto capisci che se stai troppo a pensarci non partirai mai. Allora fai il biglietto, prenoti un’ostello e non ci pensi più. Adesso sei costretto a partire, qualunque domanda ti venga in mente.

A fine viaggio, rientrato nella routine quotidiana, cerchi di fare un resoconto dell’esperienze appena vissute e degli incontri fatti. E le domande, a questo punto, sono libere di far capolino:


Cosa mi ha spinto a partire?

Sentivo il bisogno di mettermi alla prova, anche se solo in una città per nulla dispersiva come Dublino. Volevo vivere un’esperienza diversa, fortemente interiore come credo sia in generale il panorama che offre l’Irlanda. Avevo chiesto consigli a Francesca, la blogger di Viaggiare da Soli, la quale mi aveva dato come punto di partenza per un viaggio simile la necessità di scegliere un posto la cui natura fosse impetuosa e imponente, che mi lasciasse senza fiato.


La mia destinazione?

Il sentiero pericolo delle Cliffs of Moher
Perché in Irlanda? Per la pace che essa emana con i suoi paesaggi maestosi, il suo verde silenzioso, tappeto che ovatta i pensieri e riattiva la circolazione dell’anima. Per la natura da cartolina, per respirare una vita diversa ma familiare perché calorosa, tipica irlandese.
Dublino era il mio punto d’appoggio per poi provare ad allontanarmi a poco a poco ed esplorare l’Irlanda.

“Non credevo che saresti partito davvero.”

Una delle mie soddisfazioni più grandi è stata sentirmi dire da persone a me molto vicine che pensavano che non avrei mai preso la decisione di viaggiare da solo. Non sono un tipo che si getta nelle avventure o dà l’impressione di essere così indipendente. Molti pensavano fosse un’idea estemporanea, un'altra considerazione da sognatore che s’immagina “quanto sarebbe bello partire da soli”, e scoprire che oltre a stupire me stesso ho stupito anche loro mi ha riempito di orgoglio.
Viaggiando da solo hai la necessità di confrontarti, di metterti in gioco e di tirare fuori lati nascosti che tra gli amici o i familiari tendi a comprimere inconsciamente.


A parte il primo giorno in cui mi metteva a disagio mangiare da solo nella living room di un ostello, o in un prato sotto il cielo plumbeo di Dublino, i giorni successivi sono diventato più consapevole di tale condizione di viaggiatore solitario e mi ha dato modo di prendermi il tempo che cercavo per me, per osservare e notare i dettagli che mi circondavano, con la calma e la tranquillità che il paesaggio mi consigliava.
Non sono un tipo estroverso che ama fare conoscenza con sconosciuti in un pub qualsiasi, ma duranto questi tipi di viaggio hai solo due scelte: o non parli con nessuno, o con qualsiasi pretesto fai due chiacchiere con il vicino. Bastava una parola: una richiesta d’informazioni su dove si trovava il Phoenix Park, una domanda sui posti da vedere, oppure un semplice “è libera questa sedia?”; e da lì potevano partire brevi e piacevoli conversazioni.


La lingua?

Il mio inglese è scolastico, l’ho studiato solo fino al diploma, ma essendo impiegato presso una Compagnia di Spedizioni internazionali ho la necessità di sapere l’inglese per parlare con alcuni clienti. Ciononostante, forse per soggezione o per il timore di fare brutte figure con i clienti, ho sempre evitato per quanto possibile di avviare lunghe conversazioni, conseguentemente reputandomi inadatto a parlare e capire altre lingue.
La sorpresa è data invece dalla fluenza e la facilità di capire e farmi capire che ho riscontrato durante la mia vacanza relazionandomi con gli altri. L’inglese è una lingua semplice, e con poche piccole parole è possibile esprimere svariati concetti e soprattutto non perdersi o morire di fame.
Più difficile era certamente comprendere gli slang che utilizzavano le persone che incontravo. Alcuni hanno ancora delle difficoltà a capire quale sia il reale significato della frase “parlo un POCO l’inglese”, e sembra al contrario che aumentino la velocità delle parole.
E’ stato bello notare che a fine vacanza avevo ancora il mio dizionario italiano- inglese sepolto sul fondo della valigia, considerando che prima di partire lo consideravo un elemento essenziale.


Gli incontri fatti?

Viaggiando non si vedono solo oasi naturali e strutture architettoniche bellissime, ma ci sono anche altri piccoli dettagli che anch’io, prima di questo viaggio, non ritenenevo affatto indispensabili. Stando da soli, ogni persona che incontri ti offre qualcosa. Niente di materiale, sia ben chiaro, ma è pur sempre un dono che va a impreziosire il tuo bagaglio culturale e ad ampliare seppur di poco la mentalità. Ti arricchisci della storie di vita di gente che non conosci, e ascolti racconti che vengono da paesi diversi, con emozioni comunque uguali alle tue, facendo sì che si mescolino senza che tu te ne accorga. Di incontri ne ho fatti parecchi, alcuni dei quali brevissimi, mentre altri si sono protratti anche per giorni successivi.
Innanzitutto partivo dalla scusa del turista che non sa come arrivare in un posto ed è costretto a chiedere indicazioni. Su ogni strada che battevo chiedevo informazioni a qualcuno. Non importava il fatto che sapessi già dove andare, piuttosto volevo sentire voci diverse, espressioni diverse e accenti diversi. Questo aiutava a comprendere la lingua e a parlare con le persone che a primo impatto mi piacevano.

Soupheau, Manon, Jenny ed io (perdonate la mia la felpa tamarra)

Invece nei pub o nell’ostello era più semplice. Ho notato come sia estremamente facile avvicinare qualcuno quando si è da soli e parlarci per un bel po’, piuttosto che stando in compagnia di uno o più amici. Dev’essere una questione di presenza e sicurezza: un ragazzo che sta da solo e inizia a parlarti vuole solo scambiare quattro chiacchiere sorseggiando una birra; un gruppo di amici può invece anche starsene per conto suo a parlare, non ha bisogno di risposte di circostanza. Regola valida per le ragazze che ho conosciuto. L’approccio non era mai visto col pregiudizio dell’italiano che tenta di flirtare, ma come un invito a una piacevole e spensierata chiacchierata.

Parlare con le persone che non conosci è come aprire una parentesi improvvisa dentro le vite degli altri, scrutandole, assaporandole per poi uscirvi con qualcosa di significativo da tenere per sé. Siano esse storie banali o più entusiasmanti, vivi la varietà del mondo che ti circonda in brevissimi istanti: Jenny, la biologa australiana che mi elencava i fiori più belli delle contee irlandesi; Manon e Sopheau, la coppia canadese sempre in viaggio per lavoro, con cui ho passeggiato per le paurose Cliffs of Moher; il diciottenne Friedrick e i suoi amici tedeschi, che chiedono scusa al mondo per Hitler e per i Tokio Hotel; le giovanissime spagnole Mariona e Sara, che pur essendo in Irlanda per imparare la lingua mi chiedevano di parlare italiano perché “me vuelve loca tu idioma”.
                                                                                  
E poi c’era Esther, la londinese che lavorava presso i campi estivi di Dublino; il californiano Matthew, futuro erede di un ricco patrimonio lasciato dal nonno, a patto che girasse il mondo per fare esperienza, nonché addetto alla regia delle partite di hockey su ghiaccio negli States; gli italiani Luca e Alessia, nei quali ho riscontrato tantissimi interessi in comune e ho esplorato le bellissime scogliere di Howth.
Tutti hanno contribuito a rendere non solo piacevole un attimo, una serata o giorni interi, ma anche a offrirmi un piccolissimo assaggio delle loro culture: l’allegria degli Irlandesi, la gentilezza dei canadesi, o la scaltrezza dei tedeschi.
Le mie compagne di stanza tedesche
Queste impressioni si raccolgono con molta più premura quando si è da soli, perché come già detto si fa attenzione al particolare e ci si lascia, volenti o nolenti, più andare di quanto si pensi.
Una doverosa menzione la meritano le mie compagne di stanza, le giovani infermiere tedesche che il buon Dio aveva assegnato in camera mia: Sarah, Angelika, Julia e Alice, ma che ahimé, caso veramente raro fra i tedeschi, non sapevano granché l’inglese (oppure è quello che hanno voluto farmi credere?).

Avrei una lista completa di persone da elencare e di aneddoti da raccontare, tutto grazie a quelle caratteristiche che non credevo di possedere e che, stando da solo, ho tirato fuori un po’ per volta.

Fare con calma.

Rilassandosi sul “tappeto” del Phoenix Park..
Prerogativa del mio viaggio era prendere tutto con estrema calma. Mi sarebbe piaciuto vedere molti più posti di quanti ne ho visti stando lì, ma dopo pochi giorni mi ero accorto che correre per tutta Dublino per fare un tour de force a giro della città mi sembrava piuttosto deleterio perché non riuscivo ad apprezzare nulla. Ho capito l’importanza di fare le cose con calma, di vivere la vacanza non più da turista, ma da lento visitatore. Diverse volte mi sono dovuto sforzare per frenare le gambe che come d’abitudine m’imponevano un ritmo rapido e frenetico.
Invece è piacevole vedere le cose con calma, assaporarle con gusto paziente.                                                


L’oggetto immancabile?

Un quaderno, una penna e un buon libro. Volevo rilassarmi, descrivere le sensazioni, aprirmi ad un viaggio riflessivo che, comunque, viaggiando da soli si è costretti a fare. Trattandosi d’Irlanda, con le sue distese verdi, le sue scogliere e la sua tranquillità, era impossibile non lasciarsi trasportare dall’emozioni.
Di foto ne ho fatte parecchie, ma la macchina fotografica non la reputavo importante quanto dei fogli su cui annotare le proprie impressioni e il diario di viaggio: mentre tutto ciò che si vede rimane limpido nei nostri ricordi, i pensieri e le riflessioni sono effimere e rischiano di scomparire per sempre se non si trascrivono immediatamente.
La ricostruzione di questo resoconto mi sarebbe stata impossibile se non avessi avuto con me tutto il materiale.


Le foto sono il riempitivo, un richiamo personale alla memoria di un viaggio speciale che v’invito a fare. Da soli, ma non in solitudine. C’è differenza.








3 commenti:

  1. Gran bel racconto, Ale... e come ti ho già detto: ne vale sempre la pena! ;-)

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    1. Grazie, Ricky! Eccome se ne è valsa la pena! Quale altro viaggio mi consiglieresti tu, uomo di mondo? XD

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  2. Bellissimo! Hai colto davvero in pieno il significato del viaggio "in solitaria". Per ora uno dei miei viaggi preferiti. Io l'ho fatto nel 2006 in Andalusia in pullman, viaggio itinerante.. esperienza meravigliosa che porterò sempre con me!

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